Jasmine: un viaggio lungo vent’anni

Jasmine: un viaggio lungo vent’anni 1024 1024 Euro Mediter

Victor Matteucci

Sono circa venti anni che lavoro nell’ambito della cooperazione internazionale con l’obiettivo specifico di supportare le dinamiche di genere e di garantire i diritti umani delle popolazioni vulnerabili e, in particolare, di facilitare l’inclusione delle donne.

Si è trattato di un lungo viaggio che ha avuto un punto di svolta in Libano nel 2006. A quel tempo mi occupavo di cooperazione decentrata e cooperazione bilaterale in qualità di Direttore di un Istituto di Ricerca (IRIS) che, appunto, aderiva a progetti di cooperazione su programmi promossi dall’UNDP in partnership con Enti Locali, Fondazioni e ONG.

Nell’ambito di uno di questi progetti di cooperazione, fui inviato nel 2006 a un incontro tra ONG e Autorità Locali a Beirut. Si trattava di un programma UNDP destinato allo sviluppo locale, riguardante, nello specifico, il Nord del Libano, l’area metropolitana di Tripoli e il Distretto dell’AKKAR.

La guerra civile libanese si era conclusa da poco. Era stata una guerra feroce, combattuta casa per casa, che si era protratta per oltre dieci anni, tra il 1975 e il 1990.

Ero, dunque, in Libano durante la seconda guerra israelo-libanese; un conflitto che, in seguito, fu definito dagli israeliani la “seconda guerra del Libano”, dopo quella del 1982. Si trattò di una guerra lampo che durò circa 34 giorni e che era scoppiata in seguito a un’operazione militare su vasta scala, attuata dall’esercito israeliano per rappresaglia alla cattura di due suoi soldati, il 12 luglio 2006, da parte di militanti libanesi Hezbollah. Il conflitto sarebbe continuato fino al cessate il fuoco, avvenuto per intermediazione delle Nazioni Unite il 14 agosto 2006, anche se, formalmente, le operazioni avrebbero avuto termine solo l’8 settembre 2006, quando Israele accettò di rimuovere il blocco tattico-strategico navale del Libano.

Con una Delegazione Europea andai a visitare, tra il luglio e l’agosto del 2006, i danni provocati dai bombardamenti israeliani a Beirut sud, l’area della città nei pressi dell’aeroporto, dove erano situati da decenni i campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila e dove si trovava il quartier generale degli Hezbollah.

Fu lì che, accanto alle rovine dei danni provocati dalle incursioni aeree israeliane, scoprii il ruolo fondamentale delle donne nella società civile libanese. Mentre l’argomento centrale per tutti era ovviamente il conflitto, l’inevitabilità di un conflitto permanente con Israele, le dichiarazioni di guerra, i proclami alla resistenza, le donne sembravano eludere ogni dichiarazione, mentre continuavano silenziose il loro impegno in cooperative clandestine di sartoria, in piccole attività commerciali o nel reperimento di acqua e cibo. Spesso non rispondevano alle nostre domande e, in generale, dimostravano di avere poca o nessuna voglia di parlare. Ebbi l’impressione che fossero già oltre la guerra, ormai impegnate nella ricostruzione e con la priorità di assicurare la sussistenza ai figli.

Nelle rare occasioni in cui riuscii a parlare con loro durante quei giorni, fui colpito dal loro totale disincanto, erano indisponibili alla retorica e, dunque, a disquisire sulle ragioni del conflitto, che per tutte sembravano essere fin troppo evidenti. In una parola, fui colpito dal loro senso pratico, che le riuniva in stanzoni polverosi davanti a vecchie macchine per cucire o raccolte in piccole botteghe dove vendevano frutta e verdura.

In fondo, quale poteva essere il commento più duro a quello stato di guerra permanente, se non il silenzio e l’indifferenza?

Non solo esse scontavano il fatto che erano dalla parte “perdente” dello scontro arabo-israeliano, ma erano assegnatarie di un ruolo subalterno all’interno della stessa società araba.

Tuttavia fu allora, in quel basso profilo ostentato, in quella distanza subìta e rispedita, che compresi il ruolo doloroso e strategico di quelle donne e non potei non associare quelle storie alla mia storia personale e, quelle donne, a mia madre.

In un contesto di guerra, di morte e distruzione, la tensione verso la vita e la sopravvivenza che le donne esprimevano erano una sorta di condizione terza. Da un lato, dovevo constatare una tendenza distruttrice nella cultura maschile, ottusa e ripetitiva; dall’altro, una tendenza delle donne alla ricostruzione e alla ricerca di forme e opportunità di vita, a qualunque costo e in ogni circostanza, per quanto marginale.

Anche se negli anni precedenti ero già stato sollecitato su questioni di genere, fu lì, in Libano, che presi coscienza e che decisi di avviare un percorso di impegno professionale (che sarebbe anche stato di ricostruzione personale) che poneva al centro le donne e una visione culturale partecipata, condivisa. Non potevo non prendere atto che, in modo spontaneo, quelle donne che avevano impiantato forme di cooperazione spontanea, utilizzavano una modalità di organizzazione sociale orizzontale, avevano un approccio, una visione di rete e realizzavano istintivamente un processo condiviso, una sorta di messa a sistema di bisogni, conoscenze, relazioni e opportunità. Istintivamente erano dedite a una sorta di riciclo delle opportunità basato sugli scampoli di tempo, spazio e di risorse materiali, fondato sugli scarti, sui residui, sugli avanzi, su quello era rimasto.

Il Libano per molti anni (dal 2006 al 2011) sarebbe stata la mia seconda casa, un Paese straordinario con contraddizioni e convivenze estreme, con squilibri e vitalità fuori del comune. Un laboratorio di sopravvivenza a cielo aperto dove i Libanesi, mentre riecheggiava di continuo il suono della sirena che avvisava delle incursioni aeree israeliane dal mare, proseguivano imperterriti a pulire e a curare il prato lungo la “corniche” di Beirut o a curare il giardino pubblico davanti al Palazzo del Municipio di Tripoli dove, nonostante la fragilità generale e la provvisorietà delle situazioni, uomini e donne, con una straordinaria dignità, seguitavano il loro lavoro esprimendo gentilezza e professionalità, opponendosi all’incertezza, all’ipotesi di un vivere alla giornata in tailleur e in giacca, cravatta e camicie bianche perfettamente stirate. E ricordo taxi abusivi che lavoravano incessantemente per 15 ore giorno e notte per pochi dollari, case ricostruite mattone dopo mattone con il coinvolgimento di tutta la famiglia, piccole attività commerciali e ristoranti che riaprivano accanto a rovine e macerie, con l’ostinazione per la normalità. Non ho mai visto altrove una tale voglia di vivere e una tale disperata ricerca di futuro come nel “caro Libano”, come si esprimeva la mia amica Samira Baghdadi quando si rivolgeva al suo amato Paese con la tenerezza di chi si rivolge a un figlio tanto amato quanto fragile.

Nel 2011, dopo anni di cooperazione internazionale in Libano, in Marocco, in Tunisia e in Giordania, nacque Mediter, una Rete internazionale voluta da ONG, Enti Locali, Fondazioni arabe e dell’Europa mediterranea per perseguire in modo più strutturato ed efficace un’azione di tutela delle donne e di supporto alle dinamiche di genere. Per molti anni l’impegno di Mediter è stato rivolto a progetti che riguardavano essenzialmente le popolazioni più vulnerabili e i contesti post-conflitto, con programmi Europei che coinvolgevano principalmente le Regioni del Maghreb e del Mashrek e che puntavano alla formazione di base e all’inclusione delle donne (vedove e giovani donne in prevalenza) nel circuito produttivo, utilizzando strumenti di micro-credito e incubatori sociali.

Nel gennaio del 2014 Mediter si aggiudicò un progetto in Iraq, più esattamente a Mosul e nella Regione di Ninawa a nord dell’Iraq, al confine con il Kurdistan Iracheno.

Il progetto fu avviato nello stesso gennaio e realizzammo il meeting di lancio del progetto a Mosul nel marzo del 2014, blindati nel Nineveh Hotel, un hotel di lusso sul fiume Tigri che era stato realizzato da Saddam Hussein negli anni ‘80 e che, in seguito, sarebbe divenuto famoso con il nome Waritheen Hotel, hotel degli Eredi di Maometto, il quartier generale dell’Isis. Una prigione degli orrori dove i miliziani trascinavano le donne-spose che chiudevano dentro le stanze, da cui molte non sarebbero più uscite. Il secondo workshop era previsto in giugno, ma solo pochi giorni prima che partissimo per Mosul, la città fu appunto occupata dall’Isis.

L’organizzazione jihadista salafita sarebbe stata attiva, come è ormai noto, in Siria e Iraq fino al 2017 e avrebbe preso il controllo militare di un ampio territorio. Il suo capo, Abu Bakr al-Baghdadi (1971 – 2019), nel giugno 2011, avrebbe proclamato la nascita di un califfato nei territori caduti sotto il suo controllo, in un’area compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq Nord-Occidentale.

Decidemmo, d’accordo con la Commissione Europea, di non interrompere il progetto che, infatti, fu spostato a Erbil e nel Kurdistan Iracheno, dove nel frattempo gran parte delle Autorità di Mosul e della Società civile della Regione di Ninawa aveva trovato rifugio.

Il progetto “Key People”, in Iraq, costituì un altro passaggio storico e fu una nuova lezione di vita. La collaborazione con le donne sunnite di Mosul e le donne kurde di Erbil, in particolare con Saba Ramadan Hasan e Suzanne Aref, il campo profughi nei pressi della città di Duhok, nel sud del Kurdistan, dove incontrammo le donne e ragazzine sequestrate e ostaggio dell’Isis per mesi, ci restituì un’immagine deprimente del nostro lavoro. Mai come in quella circostanza ho percepito una certa vanità in quello che facevamo, come se volessimo svuotare il mare con un secchio. Misurai improvvisamente quanto fosse velleitaria, in talune circostanze, la nostra attività.

Di fronte a quell’enorme tragedia, il nostro lavoro di cooperazione emerse in tutta la sua insufficienza. Ho ancora nella mente gli occhi abbassati delle donne e delle ragazzine violentate e la silenziosa disperazione che si agitava sotto quelle tende del campo profughi che ospitavano prevalentemente donne, vecchi e bambini, in un contesto in cui non c’erano più uomini giovani che forse erano impegnati nel conflitto o che, più probabilmente, erano stati uccisi.

Durante il viaggio di ritorno, pensai che il nostro lavoro nei confronti delle fasce sociali più vulnerabili andava modificato o, comunque, che così come l’avevamo impostato, cioè diretto unicamente alle donne vulnerabili, non riusciva a modificare e a incidere. Spesso l’inclusione era temporanea e la marginalità restava un segno tangibile delle loro vite a cui non potevano sottrarsi. Spesso risultava solo una mera attività di tipo assistenziale o una sperimentazione di modelli di inclusione che, nella maggior parte delle volte, non trovava seguito.

Decidemmo, dunque, che da lì in avanti avremmo provato a modificare la natura del nostro Target Group e l’obiettivo delle nostre attività nella direzione di competenze strategiche e formazione della leadership. Comprendemmo che il cambiamento sarebbe stato possibile solo a condizione che le donne avessero potuto aspirare a un ruolo decisionale e di comando; solo se la cultura delle donne fosse stata in grado di influire nella pianificazione strategica dei territori, nella politica, nella gestione amministrativa, di influire sugli orientamenti socio-culturali.

Da lì progettammo e avviammo, attraverso il Progetto “Amina” in Algeria, un lavoro sulle competenze e sulla formazione strategica, dove il Target Group era appunto costituito da 30 donne Manager algerine che avrebbero sviluppato un’attività di alta formazione in sei aree tematiche, in affiancamento alle donne manager di Palermo nell’ottobre-novembre 2018.

L’idea di Jasmine di realizzare una rete di donne leader nel Mediterraneo e di convocare 20 donne della Regione Mediterranea che erano, o che erano state, influenti per il loro impegno e il loro ruolo internazionale nella Regione, fu il passo successivo.

L’obiettivo era di coinvolgere queste donne leader in qualità di testimonial e madrine della “Rete Jasmine” e fu una logica conseguenza dell’idea che le donne potessero consentire alle società in cui vivevano un cambiamento culturale radicale, a condizione che avessero la possibilità di accesso a ruoli di potere e di leadership, senza essere costrette a snaturare le loro visioni.

Gran parte delle 20 donne invitate a Palermo tra il 14 e il 16 novembre 2019 erano donne con cui avevamo condiviso tappe di un viaggio comune, con cui avevamo gestito progetti e condiviso speranze di cambiamento.

Tuttavia, eravamo consapevoli che, per consolidare questa visione, ci fossero alcune precondizioni da soddisfare:

            1. rafforzare l’identità delle donne, la loro autostima attraverso il conferimento di maggiore visibilità da parte di donne già affermate. Si tratta di un passaggio chiave noto a tutti i subalterni. L’incertezza culturale e identitaria mina inguaribilmente la fiducia e la possibilità di puntare su se stessi. Dunque, il primo passaggio necessario era che si avviasse un meccanismo di trasferimento del riconoscimento dalle donne alle donne, una trasmissione che non potrebbero fare gli uomini, così come per i neri non potrebbero farlo i bianchi e per i poveri non potrà mai venire dalla borghesia. Quando un riconoscimento avviene in questi termini, si determina una condizione di tipo “coloniale”, la stessa che ha consentito la creazione di leadership addomesticate e compiacenti nei Paesi extraeuropei.

In realtà, una tale forma di riconoscimento storicamente è stata spesso sinonimo di gentili concessioni a poter accedere al giardino di casa, un’autorizzazione (sancita dai dominanti – proprietari) offerta ai dominati – ospiti.  In genere, questo sistema era utile solo a ribadire chi era il padrone di casa e chi l’escluso, lo straniero.

In altri termini, se devi conquistarti un ruolo di leadership, non puoi chiederlo e ottenerlo per gentile concessione, ma devi rivendicarlo, lottare, pretenderlo. Un autentico processo di auto-riconoscimento, infatti, consente agli invisibili di diventare visibili e di entrare con forza e a pieno titolo nel contesto reale dell’esistenza (perché è noto che “esiste solo chi produce”, chi ha un ruolo sociale convenzionalmente riconosciuto e con identità e competenze certificate), revocando in questo modo discriminazioni, marginalità ed esclusioni.

Questo è stato il senso della convocazione di 20 donne influenti e protagoniste di un nuovo paradigma culturale a Palermo: testimoniare la loro partecipazione, la loro adesione alla Rete e inviare alle giovani donne del Mediterraneo un messaggio di autorevolezza e di fiducia. Stabilire e trasferire un riconoscimento inter-generazionale;

            2. in realtà, è bene essere chiari su un punto. Il Conflitto di Genere è una vera e propria guerra, uno scontro culturale estenuante e tuttora in corso con morti, feriti, arresti, attacchi, aggressioni. Conflitto di Genere che i maschi dominano da sempre, ma che non potranno vincere mai. Considerando i dati dei Paesi occidentali, per esempio, ci troviamo di fronte a dati sconcertanti. Per fare solo un esempio: ogni giorno in Italia una donna si rivolge a strutture di assistenza o denuncia aggressioni e, ogni anno, solo considerando l’Italia, sono oltre 150 le vittime, quasi una media di una ogni due giorni.

Gli ultimi dati ISTAT, a questo proposito, fotografano bene la situazione del conflitto in Italia e in Europa: quasi 7 milioni di donne italiane, dai 16 ai 70 anni, hanno subito almeno una volta nella loro vita una forma di violenza (20,2% violenza fisica, 21% violenza sessuale con casi nel 5,4% gravi, come stupro e tentato stupro). Numeri sconvolgenti, se si considera che a praticare le violenze siano stati partner o ex partner: nel dettaglio, su 3 milioni di donne, la violenza è avvenuta nel 5,2% dei casi dall’attuale compagno e nel 18,9% dei casi da un ex partner.

I dati ISTAT del 2017, rilevati su 23 Stati dell’Unione Europea, riportavano per l’Italia il numero di 123 vittime di omicidio volontario (un genere di reato più noto come “femminicidio”). Solo 4 paesi (Grecia, Polonia, Paesi Bassi e Slovenia) risulta abbiano un tasso di femminicidio inferiore a quello italiano, con la Spagna che presenta gli stessi numeri dell’Italia e i restanti 17 Paesi, invece, che registrano cifre comunque allarmanti.

La situazione nel mondo Arabo è ancora più grave, soprattutto considerando dati statistici incompleti con una tale percentuale di sommerso che impedisce un’analisi verosimile. Ma non avremmo qui lo spazio per entrare nel merito di un contesto molto complesso, che tuttavia Rita Al Khayat ha spiegato bene nel suo ultimo libro “Le figlie di Sherazade” (JacaBook), peraltro presentato a Palermo in occasione del lancio della “Rete Jasmine”.

Inoltre, l’impostazione culturale di tipo patriarcale chiama in causa l’organizzazione sociale e la struttura piramidale delle società, il modo di produzione e sfruttamento intensivo di risorse umane e naturali, l’ossessiva conservazione del potere e dei privilegi da parte dell’ élite, la pianificazione di una costante discriminazione sociale e, naturalmente, l’esclusione della maggioranza delle persone da informazioni spesso riservate e da conoscenze e competenze strategiche. Le vere mura di cinta dei feudi del medioevo informatico.

Se considerassimo il conflitto di genere, utilizzando l’approccio che ci consente l’antropologia culturale, potremmo capire meglio il ruolo di cui sono assegnatarie storicamente le donne nelle società, decifrando il significato politico del matrimonio come espressione di un certo genere di contratto, ovvero come sistema di alleanza tra famiglie e come consolidamento di gruppi sociali dominanti (Radcliffe-Brown). Potremmo, inoltre, decifrare la natura politico-culturale del concetto di proprietà privata (dal diritto del primo occupante fino alla regolamentazione dell’eredità).

Ci troveremmo anche nelle condizioni di comprendere che le dinamiche di genere sono in realtà una questione politica devastante. Un conflitto che si protrae in modo così estenuante e che è negato con tale pervicacia perché, in realtà, pone in gioco il controllo di un sistema di potere economico consolidato e atavico basato sulla guerra, sulla conquista dei territori, sullo sfruttamento indiscriminato, sull’iniquità sociale, sull’organizzazione piramidale della società, sull’individualismo possessivo, sull’antagonismo come prassi. In una logica in cui tutti sono contro tutti e che è basata su un’organizzazione del mercato del lavoro (tempi – metodologie – gerarchie), pensata esclusivamente al maschile. Si tratta cioè di un’ideologia di conquista, dell’affermarsi di un sistema di pensiero, di un’organizzazione di tipo militare. In sintesi, su un pensiero ideologico rappresentato da uno sviluppo lineare. Una logica di conquista, di annessione che tende a inglobare e/o a eliminare tutti quelli che intercetta, masticando e deformando senza scrupolo individui, culture e territori per rilasciarli devitalizzati, conformisti e servili. Il modello di conquista colonialista e neo-colonialista, soprattutto riguardo al rapporto con le “Élites delle società indigene”, è emblematico con tutte le sue varianti buoniste e spregiudicate (cfr. il volume “Col sangue agli occhi” di George L. Jackson – Einaudi) o il film “Qeimada” (1969) di Gillo Pontercovo.

L’approccio “collaborativo” tipico delle donne, la visione circolare, la proiezione greca del pensiero, sconfitta dalla storia, al contrario, potrebbe oggi rappresentare un’ipotesi strategica in grado di salvare il mondo e di evitare la prospettiva di un degrado irreversibile, ovvero che impedisca di accentuare quella condizione di tramonto (Abendland) materiale e immateriale della nostra civiltà dominata dall’Occidente. In una parola, un nuovo approccio culturale garantirebbe lo sviluppo di un’economia circolare, di un rispetto per l’ambiente, con limiti allo sviluppo e perfino a modelli di decrescita.

Ma, come si vede, siamo di fronte a un’ipotesi rivoluzionaria e, in questi casi, c’è solitamente un passaggio storico da compiere per le donne: dall’essere in sé all’essere per sé. Assumere cioè la consapevolezza della propria condizione e della propria identità politico-culturale, senza barattare un proprio ruolo sociale in cambio della perpetuazione di un modello.

Alcuni report internazionali (in particolare “The World’s Women”, “Global Gender GapReport” e “Human Development Report”), riguardanti le condizioni di vita delle donne, ormai ci consentono una visione sufficientemente consapevole riguardo a sottosviluppo, salute, istruzione, lavoro, potere decisionale, violenza e povertà, per mezzo dei quali è stato possibile sottolineare ed evidenziare fino a che punto le donne subiscono le conseguenze del conflitto di genere.

Sulla base di queste analisi, possiamo tuttavia affermare che si sta diffondendo un’adeguata consapevolezza riguardo ai diritti delle donne proprio in virtù di accordi, convenzioni e patti internazionali come la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, la “Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne” (Cedaw) e il suo Protocollo aggiuntivo, la “Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne”, la “Conferenza Mondiale sui Diritti Umani” di Vienna, la “Quarta Conferenza Mondiale delle Donne” di Pechino, la “Dichiarazione del Millennio”, la 51ma e la 55ma sessione della “Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile” (CSW).

In linea generale, il nostro approccio alle questioni di genere è molto in sintonia con le tesi esposte dalla dott.ssa Chiara Castello (Università degli Studi di Palermo – Interfacoltà Scienze della Formazione ed Economia – Laurea Magistrale in Cooperazione e Sviluppo – “Le donne e i diritti di genere: l’importanza della questione femminile nella cooperazione internazionale”), non solo riguardo all’importanza della creazione di network internazionali ma anche riguardo al fatto che si possa prevedere un doppio approccio, dal basso verso l’alto (strategia bottom-up), per garantire autenticità dei bisogni ed esaltazione delle specificità; dall’alto verso il basso (strategia top-down), in modo da consentire una visione strategica complessivamente coerente. Creando, in questo modo, una capacità di trasferimento di buone prassi tra varie ONG, tra Autorità Locali e Governi Nazionali, attivando in modo sistematico il principio di sussidiarietà e garantendo il dialogo sociale tra ONG e Autorità Locali.

Condividiamo, infine, l’analisi sull’identità proposta dalla dott.ssa Castello (op.cit.), soprattutto in riferimento a:

 1) «relazionalità», in quanto l’identità viene considerata come il risultato di un processo sociale, in cui il soggetto crea la propria identità all’interno della relazione tra il sistema psichico e il sistema sociale. Infatti, è attraverso questa relazione che il soggetto incomincia a differenziare se stesso dalla realtà sociale, affermando la sua identità per differenza, all’interno del binomio «Io – Mondo Sociale» (Besozzi, 2007: 136);

2) «permanenza nel tempo», che si riferisce alla continuità temporale del soggetto;

3) «unità», cioè la solidità del soggetto rispetto al mondo esterno, quindi il suo definirsi per differenza da quest’ultimo;

4) «riflessività», cioè la capacità del soggetto di identificarsi “da sé a sé” e di definirsi come oggetto (Besozzi, 2007: 136-137).

Riguardo, poi, ai tre fondamentali paradigmi sociologici, che considerano l’identità in modo differente:

1) il modello conflittualista, nella sua matrice marxista, che considera l’identità come identità collettive e sociali, dato che essa prende vita attraverso un percorso del tutto relazionale. Nascono identità differenti, «settoriali e oppositive» che, venendo definite in base al potere, alla ricchezza e alla classe sociale, possono entrare in conflitto;

2) il modello dell’interazionismo, invece, che valuta l’identità come un processo in continua evoluzione e, per questo, l’identità viene definita «flessibile, aperta e plurale». L’alterità viene considerata necessaria per il processo di identificazione e la costruzione del sé;

3) il modello del funzionalismo, infine, che studia l’identità come un’identità «forte, strutturata e stabile», strettamente legata a un «modello culturale e normativo di riferimento».

In conclusione, consideriamo il fatto che, alla base delle discriminazioni di genere e/o di tipo etnico-culturali, vi sia un’interpretazione o, meglio, un uso distorto e strumentale del principio (Hegeliano) di identità e riconoscimento. Il principio d’ identità, d’altra parte, acquisisce significato, come correttamente afferma la dott.ssa Chiara Castello, quando è considerato all’interno della relazione maschio-femmina, allo stesso modo di come vengono definite le differenze socialmente costruite nell’ambito di un sistema di relazioni reciproche caratterizzate da conflitti e cooperazioni. In quest’ottica, il genere è frutto di una costruzione sociale realizzata attraverso l’auto identificazione di ciascun bambino negli altri” (cfr. E. Goffman).

Intervenire, quindi, sulle dinamiche di genere, lottare per l’affermazione della parità e del riconoscimento dei diritti, richiede una trasformazione dello “Status di Genere”, ovvero la necessità di modificare un’identità sociale consolidata attraverso un sistema premiale e/o punitivo espresso dal sistema. Si tratta, in altri termini, di mutare un sistema di sovrastrutture, un’organizzazione sociale e produttiva conflittuale e competitiva che realizza gerarchie e conflitti, dominanze e subalternità, come metodo intrinseco e come prassi strategica ordinaria. Un sistema che è tutto culturale e niente affatto genetico, che realizza un paradigma patriarcale.

Questa è la sfida che la “Rete Jasmine” intende lanciare, contribuendo a costruire consapevolezze e competenze per giovani donne, sviluppando conoscenze e formando le nuove generazioni a ruoli di leadership che possano determinare un cambiamento storico, un cambiamento sociale e culturale, ma anche politico ed economico, che, tuttavia, solo le donne potranno decidere nei tempi e nei modi.


Jasmine: Un largo viaje de veinte años

Victor Matteucci

Llevo unos veinte años trabajando en la cooperación internacional con el objetivo específico de apoyar las dinámicas de género y garantizar los derechos humanos de las poblaciones vulnerables y, en particular, facilitar la inclusión de las mujeres.

Fue un largo viaje que tuvo un punto de inflexión en el Líbano en 2006. En esa época yo me ocupaba de Cooperación Descentralizada y Bilateral como Director de un Instituto de Investigación (IRIS) que participaba en proyectos de cooperación en programas promovidos por el PNUD en asociación con autoridades locales, fundaciones y ONG.

En el marco de uno de estos proyectos de cooperación, fui enviado a una reunión entre las varias  ONG partecipantes y las autoridades locales en Beirut en 2006. Era un programa del PNUD para el desarrollo local, que abarcaba específicamente el Líbano septentrional, el área metropolitana de Trípoli y el distrito de AKKAR.

La guerra civil libanesa acababa de terminar. Había sido una guerra feroz, peleada casa por casa, que había durado más de diez años, entre 1975 y 1990.

Por lo tanto, estuve en el Líbano durante la segunda guerra israelí-libanesa; un conflicto que fue definido más tarde por los israelíes como la “segunda guerra del Líbano”, después de la de 1982. Se trataba de una guerra relámpago que duró unos 34 días y que había estallado tras una operación militar a gran escala, llevada a cabo por el ejército israelí como represalia por la captura de dos de sus soldados, el 12 de julio de 2006, por militantes libaneses de Hezbolá. El conflicto continuó hasta el cese del fuego, que fue negociado por las Naciones Unidas el 14 de agosto de 2006, incluso si, formalmente, las operaciones militares no terminaron  hasta el 8 de septiembre de 2006, cuando Israel aceptó eliminar el bloqueo naval táctico-estratégico del Líbano.

Con una delegación europea fui a visitar, entre julio y agosto de 2006, los daños causados por los bombardeos israelíes en el sur de Beirut, la zona de la ciudad cercana al aeropuerto donde durante decenios se habían ubicado los campamentos de refugiados palestinos de Sabra y Shatila y donde se encontraba la sede central de Hezbolá.

Fue allí donde, junto a las ruinas de los daños causados por los ataques aéreos israelíes, descubrí el papel fundamental de la mujer en la sociedad civil libanesa. Si bien el tema central para todos era obviamente la guerra, la inevitabilidad de un conflicto permanente con Israel, las declaraciones de guerra o las proclamaciones a la resistencia, las mujeres parecían evadir todas las declaraciones, mientras continuaban silenciosamente su participación en las cooperativas de sastrería clandestinas, en los pequeños negocios o en la búsqueda de agua y alimentos. A menudo no respondían a nuestras preguntas y, en general, mostraban poco o ningún deseo de hablar. Tenía la impresión de que ya habían superado la guerra, ahora se dedicaban a la reconstrucción y con la prioridad de asegurar la subsistencia de sus hijos.

En las raras ocasiones en las que pude hablar con ellas durante esos días, me sorprendió su total desencanto, no estaban disponibles para la retórica y, por lo tanto, para discutir las razones del conflicto, que parecían ser demasiado evidentes para todas. En una palabra, me llamó la atención su sentido práctico, que las juntaba en habitaciones polvorientas frente a viejas máquinas de coser o reunía en pequeñas tiendas donde vendían frutas y verduras.

Después de todo, ¿cuál podría ser el comentario más duro a ese permanente estado de guerra, si no el silencio y la indiferencia?

No sólo contaban con el hecho de que estaban del lado “perdedor” de la confrontación árabe-israelí, sino que se les asignó un papel subordinado dentro de la propia sociedad árabe.

Sin embargo, fue entonces, en ese ostentoso bajo perfil, en esa distancia sufrida y devuelta, que comprendí el papel doloroso y estratégico de esas mujeres y no pude evitar asociar esas historias con mi historia personal y, esas mujeres, con mi madre.

En un contexto de guerra, muerte y destrucción, la tensión hacia la vida y la supervivencia que expresaban las mujeres era una especie de tercera condición. Por un lado, tuve que constatar una tendencia destructiva en la cultura masculina, obtusa y repetitiva; por otro, una tendencia de las mujeres a reconstruir y buscar formas y oportunidades de vida, a cualquier costo y en cualquier circunstancia, por marginal que sea.

Aunque en años anteriores ya se me había instado a abordar las cuestiones de género, fue allí, en el Líbano, donde tomé conciencia y decidí iniciar un camino de compromiso profesional (que también habría sido de reconstrucción personal) que situara en el centro a las mujeres y a una visión cultural compartida y participativa. No pude no darme cuenta que, de manera espontánea, esas mujeres que habían implantado formas de cooperación natural, utilizaban un método de organización social horizontal, tenían un enfoque, una visión de red y realizaban instintivamente un proceso compartido, una especie de sistematización de necesidades, conocimientos, relaciones y oportunidades. Instintivamente se dedicaban a una especie de reciclaje de oportunidades basadas en los restos de tiempo, espacio y recursos materiales, fundamentados en los desechos, residuos, sobras, en lo que quedaba.

El Líbano durante muchos años (de 2006 a 2011) habría sido mi segundo hogar, un país extraordinario con contradicciones y cohabitaciones extremas, con desequilibrios y una vitalidad inusual. Un laboratorio de supervivencia al aire libre donde los libaneses continuaban impertérritos limpiando y cuidando el césped a lo largo de la “corniche” de Beirut o cuidando el jardín público frente al Ayuntamiento de Trípoli  mientras el sonido de la sirena que advertía de los ataques aéreos israelíes desde el mar resonaba constantemente. A pesar de la fragilidad general y el carácter temporal de las situaciones, hombres y mujeres, con extraordinaria dignidad, siguieron su trabajo expresando amabilidad y profesionalidad, oponiéndose a la incertidumbre, a la hipótesis de vivir día a día con trajes y chaquetas, corbatas y camisas blancas perfectamente planchadas. Y recuerdo taxis abusivos que trabajaban incesantemente durante 15 horas día y noche por unos pocos dólares, casas reconstruidas ladrillo a ladrillo con la participación de toda la familia, pequeños negocios y restaurantes que reabrieron junto a ruinas y escombros, con obstinación por la normalidad. Nunca he visto en ningún otro lugar tal voluntad de vivir y una búsqueda tan desesperada de un futuro como en el “querido Líbano”, como solía decir mi amiga Samira Baghdadi cuando se dirigía a su querido país con la ternura de un niño tan querido como frágil.

En 2011, tras años de cooperación internacional en el Líbano, Marruecos, Túnez y Jordania, nació Mediter, una red internacional creada por varias ONG,Autoridades Locales y Fundaciones Árabes y la Europa Mediterránea para llevar a cabo una acción más estructurada y eficaz para proteger a las mujeres y apoyar las dinámicas de género. Durante muchos años, el compromiso de Mediter se ha dirigido a proyectos que se ocupaban principalmente de las poblaciones más vulnerables y de los contextos posteriores a los conflictos, con programas europeos que afectaban principalmente a las regiones del Magreb y del Mashrek y que tenían por objeto la formación básica y la inclusión de las mujeres (viudas y jóvenes principalmente) en el circuito productivo, utilizando herramientas de microcrédito e incubadoras sociales.

En enero de 2014, Mediter ganó un proyecto en el Iraq, más precisamente en Mosul y en la región de Ninawa, en el norte del Iraq, en la frontera con el Kurdistán iraquí.

El proyecto se puso en marcha en el mismo mes de enero y celebramos la reunión de lanzamiento del proyecto en Mosul en marzo de 2014, blindados en el Hotel Nineveh, un hotel de lujo en el río Tigris que había sido construido por Saddam Hussein en los años ‘80 y que más tarde se haría famoso con el nombre de Hotel Waritheen, hotel de los Herederos de Mahoma, sede del ISIS. Una prisión de horrores donde los milicianos arrastraban a las novias a sus habitaciones, de las que muchas nunca saldrían. El segundo taller estaba programado para junio, pero sólo unos días antes de salir para Mosul, la ciudad fue ocupada por el ISIS.

La organización yihadista salafista estaría activa, como se sabe ahora, en Siria e Iraq hasta 2017 y tomaría el control militar de un gran territorio. Su líder, Abu Bakr al-Baghdadi (1971 – 2019), proclamó en junio de 2011 el nacimiento de un califato en los territorios caídos bajo su control, en una zona entre el noreste de Siria y el noroeste de Iraq.

De acuerdo con la Comisión Europea, decidimos no interrumpir el proyecto que, de hecho, se trasladó a Erbil y al Kurdistán iraquí, donde entretanto la mayoría de las autoridades de Mosul y la sociedad civil de la región de Nínawa habían encontrado refugio.

El proyecto “Gente Clave” en Irak fue otro paso histórico y una nueva lección de vida. La colaboración con las mujeres suníes de Mosul y las mujeres kurdas de Erbil, en particular con Saba Ramadan Hasan y Suzanne Aref, el campamento de refugiados cerca de la ciudad de Duhok, en el sur del Kurdistán, donde conocimos a las mujeres y las jóvenes secuestradas y rehenes del ISIS durante meses, nos dio una imagen deprimente de nuestro trabajo. Nunca antes había percibido cierta vanidad en lo que hacíamos, como si quisiéramos vaciar el mar con un cubo. De repente medí cuán poco realista, bajo ciertas circunstancias, era nuestra actividad.

Frente a esa enorme tragedia, nuestro trabajo de cooperación surgió en toda su insuficiencia. Todavía tengo en mi mente los ojos abatidos de las mujeres y las jóvenes que fueron violadas y la silenciosa desesperación que se agitaba bajo esas tiendas en el campo de refugiados que albergaban principalmente a mujeres, ancianos y niños, en un contexto en el que no había más jóvenes que quizás estuvieran involucrados en el conflicto o que, más probablemente, hubieran sido asesinados.

Durante el viaje de regreso pensé que nuestro trabajo con los grupos sociales más vulnerables debía cambiarse o, en cualquier caso, que tal como lo habíamos establecido, es decir, dirigido sólo a las mujeres vulnerables, no podía aportar cambios reales. A menudo la inclusión era temporal y la marginalidad seguía siendo un signo tangible de sus vidas del que no podían escapar. A menudo, se trataba de una mera actividad asistencial o de un experimento de modelos de inclusión que, en la mayoría de los casos, no tenía continuación.

Por lo tanto, decidimos que a partir de ese momento trataríamos de cambiar la naturaleza de nuestro Target Group y el enfoque de nuestras actividades en la dirección de las habilidades estratégicas y la formación en liderazgo. Comprendimos que el cambio sólo sería posible si las mujeres pudieran aspirar a un papel de decisión y liderazgo; sólo si la cultura de las mujeres fuera capaz de influir en la planificación estratégica de los territorios, en la política, en la gestión administrativa, habría podido afectar a las orientaciones socioculturales.

A partir de ahí se planificó e inició, a través del Proyecto “Amina” en Argelia, una labor de formación técnica y estratégica, en la que el Target Group estaba formado por 30 mujeres directivas argelinas que desarrollarían una actividad de formación de alto nivel en seis esferas temáticas, junto con las mujeres directivas de Palermo en octubre-noviembre de 2018.

La idea de Jasmine de crear una red de mujeres líderes en el Mediterráneo y de convocar a 20 mujeres de la región del Mediterráneo que fueran o hubieran sido influyentes por su compromiso y su papel internacional en la región, era el siguiente paso.

El objetivo era involucrar a estas mujeres líderes como testimonios y madrinas de ” Jasmine Network” y era una consecuencia lógica de la idea de que las mujeres podían permitir a las sociedades en las que vivían un cambio cultural radical, siempre que tuvieran la posibilidad de acceder a las posiciones papeles de poder y liderazgo, sin verse obligadas a distorsionar sus visiones.

La mayoría de las 20 mujeres invitadas a Palermo entre el 14 y el 16 de noviembre de 2019 eran mujeres con las que habíamos compartido etapas de un viaje común, con las que habíamos gestionado proyectos y compartido esperanzas de cambio.

Sin embargo, éramos conscientes de que, para consolidar esta visión, había ciertas condiciones previas que debían cumplirse:

            1. Fortalecer la identidad de las mujeres, su autoestima a través del reconocimiento y la atribución de mayor visibilidad por mujeres establecidas. Este es un paso clave conocido por todos los subordinados. La incertidumbre cultural e identitaria socava incurablemente la confianza y la posibilidad de apostar por uno mismo. Por lo tanto, el primer paso necesario era poner en marcha un mecanismo para transferir el reconocimiento de las mujeres hacia las mujeres, una transmisión que los hombres no podían hacer, al igual que por los negros no lo podían hacer los blancos y para los pobres nunca podía venir de la burguesía. Cuando el reconocimiento tiene lugar en estos términos, se determina una condición de tipo “colonial”, la misma que ha permitido la creación de un liderazgo domesticado y complaciente en los países no europeos.

En realidad, esa forma de reconocimiento ha sido históricamente sinónimo de suaves concesiones para acceder al jardín de la casa, una autorización (formalizada por los gobernantes – propietarios) ofrecida a los dominados – huéspedes. En general, este sistema sólo servía para reiterar quién era el dueño de casa y quién estaba excluido, el extranjero.

En otras palabras, si tienes que ganarte un papel de liderazgo, no puedes pedirlo ni obtenerlo por cortesía, tienes que reclamarlo, luchar por él, exigirlo. Un auténtico proceso de autorreconocimiento, de hecho, permite que lo invisible se haga visible y entre de manera contundente y plena en el contexto real de la existencia (porque se sabe que “sólo existen los que producen”, los que tienen una función social convencionalmente reconocida y una identidad y aptitudes certificadas), revocando así la discriminación, la marginalidad y la exclusión.

Este fue el sentido de la convocatoria de 20 mujeres influyentes y protagonistas de un nuevo paradigma cultural en Palermo: demostrar su participación, su adhesión al Network y enviar a las jóvenes del Mediterráneo un mensaje de autoridad y confianza. Establecer y transferir un reconocimiento intergeneracional.

            2. En realidad, es importante tener bien claro un punto. El Conflicto de Género es una verdadera guerra, un agotador y aún vigente choque cultural con muertos, heridos, detenciones, ataques, agresiones. Un conflicto de género que los hombres siempre han dominado, pero que nunca podrán ganar. Considerando los datos de los países occidentales, por ejemplo, nos enfrentamos a datos desconcertantes. Para dar sólo un ejemplo: todos los días en Italia una mujer acude a los servicios sociales de asistencia o denuncia una agresión y, cada año, sólo considerando Italia, hay más de 150 víctima. Una media de casi una víctima cada dos días.

Los últimos datos del ISTAT, a este respecto, dan una buena imagen de la situación de conflicto en Italia y Europa: casi 7 millones de mujeres italianas, con edades comprendidas entre los 16 y los 70 años, han sufrido al menos una vez en su vida una forma de violencia (20,2% de violencia física y  21% de violencia sexual con un 5,4% de casos graves, como violaciones e intentos de violación). Cifras inquietantes, si consideramos que los autores de la violencia eran parejas o ex parejas: en detalle, de 3 millones de mujeres, la violencia se produjo en el 5,2% de los casos por la pareja actual y en el 18,9% de los casos por una expareja.

Los datos del ISTAT (Instituto nacional de estadística) correspondientes a 2017, recogidos en 23 países de la Unión Europea, muestrearon, en el caso de Italia, el número de 123 víctimas de homicidio voluntario (un tipo de delito más conocido como “feminicidio”). Sólo 4 países (Grecia, Polonia, los Países Bajos y Eslovenia) tienen una tasa de feminicidio inferior a la de Italia, mientras que España tiene las mismas cifras que Italia y los 17 países restantes, registran cifras alarmantes.

La situación en el mundo árabe es aún más grave, especialmente si se tienen en cuenta los datos estadísticos incompletos con un porcentaje tan alto de datos sumergidos que es imposible hacer un análisis plausible. Pero no tenemos aquí el espacio para entrar a fondo en  un contexto tan complejo, que, sin embargo, Rita Al Khayat explicó bien en su último libro, “Las Hijas de Sherezade” (JacaBook), presentado en Palermo con motivo del lanzamiento de “Jasmine Network”.

Además, el enfoque cultural patriarcal pone en tela de juicio la organización social y la estructura piramidal de las sociedades, la forma de producción y explotación intensiva de los recursos humanos y naturales, la conservación obsesiva del poder y de los privilegios por parte de la élite, la planificación de una discriminación social constante y, por supuesto, la exclusión de la mayoría a la información, a menudo confidencial, y de los conocimientos y aptitudes estratégicos. Las verdaderas murallas de los feudos de la edad ciber-medieval.

Si consideramos el conflicto de género, utilizando el enfoque que nos permite la antropología cultural, podríamos entender mejor el papel asignado históricamente a la mujer en las sociedades, descifrando el significado político del matrimonio como expresión de un cierto tipo de contrato, es decir, como un sistema de alianza entre familias y como una consolidación de los grupos sociales dominantes (Radcliffe-Brown). También podríamos descifrar la naturaleza político-cultural del concepto de propiedad privada (desde el derecho del primer ocupante hasta la regulación de la herencia).

También estaríamos en condiciones de comprender que las dinámicas de género son en realidad una cuestión política devastadora. Un conflicto tan agotador y negado con tanta perseverancia  porque, en realidad, pone en juego el control de un sistema de poder económico consolidado y atávico basado en la guerra, la conquista de territorios, la explotación indiscriminada, la injusticia social, la organización piramidal de la sociedad, el individualismo posesivo, el antagonismo como praxis. Es una lógica en la que todos están contra todos y que se basa en una organización del mercado laboral (tiempos – metodologías – jerarquías), pensada exclusivamente en el varón. En otras palabras, es una ideología de conquista, de afirmación de un sistema de pensamiento, de una organización de tipo militar. En resumen, en un pensamiento ideológico representado por un desarrollo lineal. Una lógica de conquista, de anexión que tiende a incorporar y/o eliminar a todos aquellos que intercepta, masticando y deformando sin escrúpulos a individuos, culturas y territorios para dejarlos desvitalizados, conformados y serviles. El modelo de conquista colonialista y neocolonialista, especialmente en lo que respecta a la relación con las “élites de las sociedades indígenas”, es emblemático con todas sus variantes hipócritamente moralistas y desprejuiciadas (véase el libro “Col sangue agli occhi” de George L. Jackson – Einaudi) o la película “Queimada” (1969) de Gillo Pontercovo.

El enfoque “colaborativo” típico de las mujeres, la visión circular, la proyección griega del pensamiento, derrotada por la historia, podría representar hoy en día una hipótesis estratégica capaz de salvar el mundo y evitar la perspectiva de una degradación irreversible, es decir, impedir la acentuación de la condición material e inmaterial del ocaso (Abendland) de nuestra civilización dominada por Occidente. En una palabra, un nuevo enfoque cultural garantizaría el desarrollo de una economía circular, de respeto al medio ambiente, con límites al desarrollo e incluso a los modelos de decrecimiento.

Pero, como se puede ver, estamos ante una hipótesis revolucionaria y, en estos casos, suele haber un paso histórico para las mujeres: desde estar en uno mismo hasta estar para uno mismo. Es decir, asumir la conciencia de la propia condición y de la propia identidad político-cultural, sin intercambiar el propio papel social a cambio de la perpetuación de un modelo.

Algunos informes internacionales (en particular ” The World’s Women”, “Global Gender GapReport” e “Human Development Report “), relativos a las condiciones de vida de la mujer, nos permiten ahora una visión suficientemente consciente del subdesarrollo, la salud, la educación, el trabajo, el poder de decisión, la violencia y la pobreza, gracias a la cual se ha podido destacar y evidenciar la medida en que las mujeres sufren las consecuencias de los conflictos entre los géneros.

Sin embargo, gracias a estos análisis, podemos decir que se está difundiendo una conciencia adecuada de los derechos de la mujer precisamente gracias a los acuerdos, convenciones y pactos internacionales como la “Declaración Universal de Derechos Humanos”, la “Convención sobre la eliminación de todas las formas de discriminación contra la mujer” (Cedaw) y su Protocolo Adicional, la “Declaración sobre la eliminación de la violencia contra la mujer”, la “Conferencia Mundial de Derechos Humanos” en Viena, la “Cuarta Conferencia Mundial sobre la Mujer” en Beijing, la “Declaración del Milenio”, los períodos de sesiones 51º y 55º de la “Comisión de las Naciones Unidas de la Condición Jurídica y Social de la Mujer”(CSW).

En general, nuestro enfoque de las cuestiones de género está muy en línea con las tesis presentadas por la Dr. Chiara Castello (Universidad de Palermo – Interfacultà Scienze della Formazione ed Economia – Máster en Cooperación y Desarrollo – “La mujer y los derechos de género: la importancia de las cuestiones relativas a la mujer en la cooperación internacional”), no sólo en relación a la importancia de la creación de redes internacionales, sino también en el hecho de que se puede prever un doble enfoque, de abajo hacia arriba (estrategia bottom-up), para garantizar la autenticidad de las necesidades y la exaltación de las especificidades; de arriba hacia abajo (estrategia de top-down), para permitir una visión estratégica global coherente. Creando, de esta manera, una capacidad para la transferencia de buenas prácticas entre diversas ONG, entre las autoridades locales y los gobiernos nacionales, activando sistemáticamente el principio de subsidiariedad y asegurando el diálogo social entre las ONG y las autoridades locales.

Finalmente, compartimos el análisis sobre la identidad propuesto por la Dra. Castello (op.cit.), especialmente en referencia a:

 1) La “relacionalidad”, en la que la identidad se considera el resultado de un proceso social, en el que el sujeto crea su propia identidad dentro de la relación entre el sistema psíquico y el sistema social. De hecho, es a través de esta relación que el sujeto comienza a diferenciarse de la realidad social, afirmando su identidad por la diferencia, dentro del binomio “Yo – Mundo Social” (Besozzi, 2007: 136);

2) “permanencia en el tiempo”, que se refiere a la continuidad temporal del sujeto;

3) “unidad”, es decir, la solidez del sujeto con respecto al mundo exterior, por lo tanto su definición por diferencia de este último;

4) “reflexividad”, es decir, la capacidad del sujeto de identificarse “de sí mismo a sí mismo” y de definirse como objeto (Besozzi, 2007: 136-137).

y sobre los tres paradigmas sociológicos fundamentales, que consideran la identidad de manera diferente:

1) el modelo conflictualista, en su matriz marxista, que considera la identidad como una identidad colectiva y social, ya que nace a través de un camino completamente relacional. Nacen identidades diferentes, “sectoriales y opositoras” que, al definirse según el poder, la riqueza y la clase social, pueden entrar en conflicto;

2) el modelo de interaccionismo, por otra parte, que evalúa la identidad como un proceso en constante evolución y, por esta razón, la identidad se define como “flexible, abierta y plural”. La alteridad se considera necesaria para el proceso de identificación y autoconstrucción del yo;

3) el modello de funzionalismo”, por último, que estudia la identidad como una identidad “fuerte, estructurada y estable”, estrechamente vinculada a un “modelo cultural y normativo de referencia”.

En conclusión, consideramos el hecho de que existe una interpretación o, mejor dicho, un uso distorsionado e instrumental del principio (hegeliano) de identidad y reconocimiento en la base de la discriminación de género y/o étnico-cultural. El principio de identidad, por otra parte, adquiere sentido, como afirma correctamente la Dra. Chiara Castello, cuando se considera dentro de la relación hombre-mujer, de la misma manera que las diferencias construidas socialmente se definen dentro de un sistema de relaciones recíprocas caracterizadas por los conflictos y la cooperación. En esta perspectiva, el género es el resultado de una construcción social realizada a través de la autoidentificación de cada niño en los demás” (cf. E. Goffman).

Por lo tanto, intervenir en la dinámica de género, luchando por la afirmación de la igualdad y el reconocimiento de los derechos, requiere una transformación de la “Condición de Género”, es decir, la necesidad de cambiar una identidad social consolidada a través de un sistema de recompensa y/o castigo expresado por el sistema. En otras palabras, se trata de cambiar un sistema de superestructuras, una organización social y productiva conflictiva y competitiva que genera jerarquías y conflictos, dominio y subordinación, como un método intrínseco y como una práctica estratégica ordinaria. Un sistema que es todo cultural y nada genético, que genera un paradigma patriarcal.

Este es el desafío que ” Jasmine Network” se propone lanzar, ayudando a crear conciencia y aptitudes para las mujeres jóvenes, desarrollando conocimientos y capacitando a las nuevas generaciones en funciones de liderazgo que puedan provocar un cambio histórico, social y cultural, pero también un cambio político y económico, que, sin embargo, sólo las mujeres podrán decidir en tiempo y forma.

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